La cura millenaria dello scafo delle navi
di Sacha Giannini
di Sacha Giannini
Da millenni i marinai hanno cercato, assieme all’arte di andar per mare, modi idonei per prevenire il “biofouling” ( bio = vita e fouling = immondizia ) e quel complesso fenomeno marino dell’incrostazione biologica .
Un tempo sotto le navi non esistevano le “nanotecnologie siliconiche” ma c’era un semplice mozzo che andava in apnea a staccare manualmente le cozze e le alghe che si formavano in quantità.
Nelle memorie del tempo, l’uomo ha sempre sfruttato le antiche percorrenze del mare, navigando con legni idonei e disponibili, lavorandoli, proteggendoli e conservandoli dall’ambiente aggressivo che ne consumava lentamente lo scafo.
Dante nel XIII secolo ( Inferno, canto 21 ) descriveva come i Veneziani riparavano d’inverno i legni delle barche in cattivo stato divorati dalle Bisse ( Teredini ), sigillandoli con la stoppa e la pece…
Plutarco ( 46 – 127 a.C. ) descriveva come “erbacce” e “ melme “ le spazzature che colonizzavano e abitavano l’opera viva: “...aggregazioni coloniali sedentarie di Foranavi ( Teredini ) e Remore a ventosa insieme a quel mondo animale di molluschi vermiformi e di popolamenti biologici… ” furono il primo grave problema da dover affrontare.
La pece come «cera» per ungere le navi è descritta da Plinio il Vecchio ( 23 – 79 d.C. ) come un rimedio per impermeabilizzare dalle teredini il fasciame delle navi ed ampiamente usata dai romani.
Si tiravano a secco gli scafi, si inclinavano prima da un lato, poi dall’altro rimuovendo le alghe e i crostacei, stendendo un composto detto «spalmo» formato da sego, olio di pesce, zolfo e «cerussa» (biacca) o bianco di piombo mescolate tra loro o da un composto di calce ed arsenico per prevenire l’attacco dei vermi che penetravano nelle fasciame cibandosi del loro legno.
Nei porti i piccoli e medi bastimenti erano alla banda (o abbattuti) ossia inclinati su un bordo fino all'emersione della chiglia per la manutenzione (pulizia e calafataggio) dello scafo. Si diceva anche far carena o carenaggio. Foto da Modellisti Navali Forum - Forumattivo
I Fenici ( XIII a.C. ) spalmavano le carene delle loro imbarcazioni di bitume proveniente dal Mar Morto, mentre Greci, Persiani e poi anche i Romani le rivestivano di fogli metallici di bronzo, piombo e rame.
Oltre alla pece e al bitume, furono usate in seguito sostanze dai nomi esotici più strani come la Dammar, proveniente dalla Indie Orientali, la Colofonia o pece greca, la Mastice dei pistacchi di Chio, la Sandracca dell'Africa, l'Ambra e la resina Coppale di Zanzibar.
Si sperimentarono fino al XVII / XVIII secolo varie tecniche per migliorare l’efficienza di scorrimento e limitare il degrado del fasciame, arrivando a testare ed utilizzare per secoli come protezione anche l’argento. Si usò anche l’espediente, più economico, di ricoprire la carena con chiodi di ferro dalla larga testa triangolare ( Magliettatura ) ma il rimedio si dimostrò presto inefficace, con due inconvenienti, la ruggine che corrodeva i chiodi e la facilità con cui venivano espulsi a causa delle continue torsioni indotte dal movimento.
Gli inglesi intorno al 1700 iniziarono a mettere nel fondo delle loro navi una guaina di rame, che respingeva gli organismi e offriva una carena ben levigata, un minore attrito all’acqua aumentando la velocità dei vascelli e una superiorità di veleggiare.
HMS Bellona (1760)
Nel 1760 si iniziò a rivestire gli scafi delle marine militari d’Europa con sottili lastre e fogli di rame inchiodate a foderare la carena di legno.
Il costo troppo caro della fodera di rame indusse alcuni costruttori di navi da traffico a sostituirle con fogli di zinco; ma la breve durata di questo metallo, troppo molle per poter resistere all’azione corrosiva dell’acqua di mare, ne fece abbandonare presto l’uso.
Per alcuni decenni, il rivestimento di rame fu di gran moda, ma quando scafi in acciaio entrarono in uso nel 1800, le cosiddette carene “ramate” nascondevano l’inconveniente di potersi applicare solo su scafi in legno rappresentando un ostacolo allo sviluppo delle navi in ferro per via della corrosione galvanica.
L’acciaio da solo era impermeabile ai vermi, ma non al fango, alle alghe e ai denti di cane.
Il successo del rame come guaina spinse gli armatori a provare per i loro scafi rivestimenti con vernici appropriate.
Nascono così i primi biocidi ( dal greco bios = vita e dal latino caedere = uccidere ) come l’elemento chiave delle attuali antivegetative, inibendo la formazione di incrostazioni con sostanze altamente tossiche che letteralmente “uccidono la vita”. Veri e propri veleni, inseriti nella mescola del prodotto, per la flora e fauna marina residente in prossimità dello scafo e che nel tempo vengono rilasciati in maniera controllata.
Leggi anche:
L'antivegetativa: prodotto chiave del settore nautico - Prima Parte
L'antivegetativa: prodotto chiave del settore nautico - Seconda parte
Arch. Sacha Giannini
architetto@sachagiannini.it
Foto in copertina: Nave da guerra dipinta in un vaso di ceramica a figure nere rinvenuto a Cerveteri - https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Boat_Cdm_Paris_322_n1.jpg
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